La narrazione della violenza nei prodotti di intrattenimento: cosa succede quando il maltrattante è l’eroe?

A cura di Maddalena Puscas psicologa/psicoterapeuta Centro Uomini Maltrattanti Dico Tra Noi. Coordinatrice sportello Antiviolenza Il Cielo Fuori, sezione femminile carcere Villa Fastiggi Pesaro e Mara Wolnitzky operatrice dell’accoglienza centro antiviolenza “Parla con Noi” .

La nostra Cooperativa ha da tempo avviato un percorso sulla sensibilizzazione delle dinamiche afferenti al rapporto di genere, alla violenza sulla donna e agli abusi familiari, partendo dal mettere in evidenza i pregiudizi inconsci, il linguaggio e la necessità di orientarsi a modelli di condivisione dei compiti di cura. Oggi ampliamo lo sguardo sulla tematica per esplorare e scardinare il concetto di normalità legato ad alcune situazioni che troppo spesso vengono trascurate e accettate condividendo un articolo sul tema.

La narrazione della violenza è un argomento complesso. Capita spesso di assistere a racconti di violenze, attraverso la visione di programmi, dibattiti televisivi, film. Di fronte a tale narrazione è importante chiedersi: come viene raccontata e soprattutto nominata la violenza? Il nome che diamo alle cose condiziona la percezione del pubblico e guida l’interpretazione dei fatti; è importante dunque esaminare come la violenza o gli abusi vengono rappresentati.

I media, hanno il potere di rafforzare determinati concetti o stereotipi alla base della violenza, anziché eliminarli. Con la rivoluzione culturale che è in atto, il cui obiettivo è il contrasto alla violenza nei confronti del genere femminile, la frequente rappresentazione della violenza nei media sta suscitando preoccupazioni per i suoi potenziali effetti sul comportamento umano, specialmente sul comportamento dei giovani, più condizionabili, perché tende a una sua normalizzazione.

La violenza è oggi un elemento potente nella e della narrazione: suscita emozioni intense e contribuisce a creare tensione. In molti generi cinematografici, come film d’azione, thriller e horror, la violenza è spesso utilizzata come mezzo per sostenere la trama e creare suspense. Ma cosa succede quando lo spettatore assiste alla visione della violenza agita dal cosiddetto “cattivo” della storia? E se invece colui che agisce qualche forma di violenza è il protagonista “eroe” del film?

Quando la violenza è compiuta dal cattivo, l’obiettivo del regista è spesso quello di creare un conflitto strutturando due figure: una “buona” e una “cattiva”. Contro i “cattivi”, i protagonisti “buoni” devono lottare. Ecco che in uno scenario del genere, dove chi maltratta è il nemico, la violenza diventa uno strumento narrativo per esplorare i temi del conflitto, della giustizia e della vendetta. In molti casi, la violenza viene giustificata o presentata come una risposta necessaria
alla minaccia rappresentata dal cattivo/maltrattante. In questo caso, viene rappresentata un’idea di giustizia dove il “cattivo” viene sconfitto o punito per i suoi atti.

L’idea che un “eroe” possa, invece, essere il cattivo/maltrattante è piuttosto paradossale poiché l’eroe è chiaramente un personaggio positivo, un modello da seguire, un salvatore. La figura del “maschio eroe” è stata una costante nella narrativa, nella letteratura, nel cinema e in altre forme di intrattenimento per molti anni. Questo modello di maschio rappresenta un uomo che, attraverso il suo coraggio, la sua forza, si distingue come protagonista e risolutore di conflitti. Le caratteristiche chiave associate al “maschio eroe” sono: coraggio, determinazione, forza fisica, capacità strategiche e intelligenza. Il problema nasce quando questo eroe viene però dotato di potere e di capacità manipolatorie, e quando l’eroe usa tale potere all’interno delle relazioni intime.

Accade quindi che in alcuni film o in alcuni programmi, chi abusa, chi manipola, venga descritto come una persona innamorata, o che ama troppo e si produce così una sorta di “romanticizzazione” della violenza.

Una storia di abuso, viene raccontata come una storia d’amore.

Nei programmi o film spesso accade di considerare l’amore come qualcosa di irrazionale e indomabile, oltre che qualcosa che si possiede o si conquista. E questo ci confonde. L’amore così rappresentato sembra prescindere dal controllo, e pare anche piuttosto distante dalla rappresentazione che per esempio ne ha fatto lo psicologo/psicanalista Erich Fromm nel suo classico L’arte di Amare. Nel libro, il lettore viene invitato a considerare l’amore non solo come un sentimento romantico, ma come un impegno attivo e consapevole verso gli altri e verso se stessi, addirittura una “forma di arte” che richiede impegno, dedizione e pratica. Quando si è di fronte alla “romanticizzazione” della violenza non possiamo certo parlare di amore e di comportamenti che lo coltivano.

Qualche anno fa sul grande schermo è andato in onda un film (Cinquanta sfumature di grigio) che è diventato piuttosto popolare ma allo stesso tempo piuttosto discusso, dove un giovane imprenditore miliardario, viene rappresentato come un uomo affascinante, bello e, allo stesso tempo, geloso, possessivo, freddo e calcolatore, che vive le relazioni in modo asimmetrico e stipula “contratti relazionali” tra “uomo padrone” e “donna sottomessa”. Questo film ebbe molto successo e, in effetti, le indagini sociologiche documentano che al pubblico piace l’amore smisurato e la visione di film come questi carica il pubblico di aspettative.

Ma torniamo alla domanda centrale: se i giovani assistono alla visione di alcuni film, dove l’eroe maltratta e dove si fa confusione tra amore e abuso, quali sono i rischi a cui vanno incontro?
Un primo rischio prende il nome di normalizzazione della violenza. La presenza costante di violenza agita da parte di uomini nei confronti delle donne, che non si conformano alle loro aspettative o desideri, possono portare alla percezione che la violenza sia normale, e dunque accettabile.

Un secondo rischio, si chiama desensibilizzazione: L’esposizione ripetuta alla violenza nei media può portare alla desensibilizzazione. In questo caso il pubblico diventa meno sensibile o reattivo di fronte alla violenza nella vita reale. Questo fenomeno riguarda proprio la nostra capacità/incapacità di comprendere l’impatto reale della violenza.

Un terzo rischio è la naturalizzazione, che consiste nel rappresentare la violenza maschile come appartenente al maschio in quanto tale.

Un quarto rischio, consiste nel considerare la violenza maschile contro le donne, dovuta a questioni di tipo passionale. La violenza viene interpretata come un conflitto di coppia, un comportamento che a volte “scappa di mano”. Si assiste in questo modo a una concezione della violenza che rende più passionale la relazione e che promuove il sacrificio e la tolleranza ad oltranza in nome dell’amore.

Per evitare questi rischi, risulta importante educare e sensibilizzare il pubblico sulle conseguenze della violenza, e promuovere una visione critica di come i media affrontano il problema della violenza. Seppure esista una differenza tra la violenza rappresentata e la violenza agita, allo stesso tempo tra queste esiste un inscindibile legame.

Generalmente si tende a imitare il comportamento di coloro che si vedono e si ammirano in un programma o film. Molti anni fa, le ricerche hanno messo in luce una tendenza da parte dei bambini a imitare i comportamenti aggressivi visti in televisione. Una delle prime ricerche a riguardo venne condotta nel 1961 dallo psicologo Albert Bandura. Lo studio, noto come Esperimento della bambola Bobo, prevedeva la creazione di tre gruppi di bambini: il primo gruppo poteva osservare, attraverso uno schermo televisivo, un adulto intento a picchiare una bambola, di nome Bobo appunto; l’uomo prendeva la bambola a calci e a pugni, la scagliava lontano, le urlava contro e la colpiva con un martello. Il secondo gruppo, osservava un collaboratore giocare con delle costruzioni di legno, senza manifestare alcuna aggressività nei confronti di Bobo. Il terzo gruppo era un gruppo di controllo, al quale non veniva sottoposto alcun filmato.

In una fase successiva, i bambini erano condotti in una stanza nella quale erano presenti diversi tipi di giochi, tra cui la bambola Bobo. Lo psicologo poté osservare che i bambini che avevano osservato l’adulto picchiare Bobo, erano più portati a colpire e picchiare la bambola. La loro aggressività era maggiore, sia rispetto a quelli che avevano visto il filmato con l’uomo che giocava con le costruzioni, sia rispetto a quelli che non avevano osservato nessun filmato.

Non resta che confermare che i media, i film e i programmi di intrattenimento, sono potenti strumenti che spingono all’imitazione, stabiliscono e rafforzano concetti, ci orientano nella scelta dei comportamenti accettabili, condizionano la percezione e la concettualizzazione della violenza.

La glamourizzazione e la romanticizzazione della violenza è incredibilmente dannosa per il modo in cui le donne stesse intendono le relazioni intime. Se i media “rappresentano” alle vittime che la violenza è passionale e indice di amore, loro stesse rischieranno di romanticizzare o sminuire le molestie e la violenza subita. Viene inoltre promosso uno stereotipo maschile incapace di avere e mostrare sensibilità nelle relazioni affettive e un modello femminile pronto alla cura e la comprensione ad oltranza.
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‘amore rimane e rimarrà una delle forze più potenti, in grado di ispirare e alimentare la vita stessa. Facciamo attenzione a non crearne una versione distorta e perversa, perché l’amore è esattamente il contrario: una fonte di crescita, sostegno e cura